PENSARE E RAGIONARE
Un articolo di Alessandro Carli
Da quei notiziari o talk-show dove si parla di ciò che la scuola dovrebbe offrire per produrre (e non uso a caso questo verbo) giovani pronti ad entrare nel mondo del lavoro, si capisce subito dove stiamo andando a parare.
Le istituzione scolastiche ed accademiche hanno ormai fatto una scelta, temo definitiva: essere una fucina di esseri limitatamente pensanti, ma pronti ad occupare quei posti di lavoro di cui il mondo del lavoro ha sempre più bisogno: una scelta senza visione che fa delle scuole allevamenti di giovani occupabili nel più breve termine possibile.
Come sempre, si antepongono soluzioni di (relativamente) breve termine a risposte che danno i loro frutti nel tempo.
Almeno in Italia, l’istruzione si sta definitivamente spaccando in tre grandi tronconi;
- Uno che si focalizza sullo stimolare il pensiero e la creatività, come gli studi classici, la filosofia, l’arte nelle sue varie forme, la teologia, le scienze politiche (anche se questa meriterebbe qualche considerazione a parte), ecc.;
- Un altro che si focalizza sulle varie discipline tecnico-scientifiche, i vari aspetti del business management, l’economia/finanza, le materie ad indirizzo sociale, ecc.;
- Ed infine, il terzo grande troncone è quello che riguarda più da vicino il vasto mondo dell’artigianato, tra cui l’alberghiero e il turismo in genere, nonché i vari mestieri tramandati nel corso dei secoli. Stiracchiando un po’ questa categoria, qui c’inserirei anche chi in un’azienda si occupa dei suoi aspetti più “relazionali”, come i commerciali e gli addetti al marketing.
Questa suddivisione non è basata sulla specificità della disciplina studiata o sugli anni di studio (diploma, laurea, ecc.) necessari per poter esercitare un certo tipo di lavoro, ma sulla loro finalità.
Nel primo caso, c’è (o dovrebbe esserci) una maggiore attenzione sullo stimolare lo studente a formulare pensieri propri in relazione agli eventi e ai tempi che sta vivendo; nel secondo caso, si cerca di stimolare il ragionamento e la logica, poiché per loro natura, questi studi non consentono grande spazio di improvvisazione o di pensiero critico; nel terzo caso, si ha qualcosa di ibrido (non propriamente una sintesi) tra i precedenti due, soprattutto a livello di creatività e di istintività.
Secondo quanto riportato dalle statistiche, sono soprattutto coloro che operano nella seconda categoria ad essere maggiormente ricercati dal mondo del lavoro. Perché rispondono maggiormente alle richieste di una sempre maggiore specializzazione in un determinato settore da parte delle aziende? Certamente sì… ma anche perché, da una parte, sono già tecnicamente più o meno pronti ad utilizzare la conoscenza acquisita a scuola e, dall’altra, sono meno “impegnativi”.
Sono forti nel ragionamento, come dicevo, magari con un QI mediamente più alto, ma nella maggior parte dei casi, non sono abituati a pensare nel senso più profondo del termine, utilizzando le informazioni derivanti anche da altri rami della conoscenza, combinandole, interrogandole, elaborandole e sintetizzandole in qualcosa che assomigli ad un pensiero autenticamente autonomo.
Ribadisco che non è in discussione la loro intelligenza, anzi, né tantomeno la loro capacità di esercitare un pensiero critico… semplicemente, non sono addestrati a farlo, tant’è vero che raramente in un’azienda i collaboratori più problematici – almeno dal punto di vista della direzione – appartengono a questa categoria.
Il mio timore, per loro, è che se da una parte sono oggi i più ricercati dalle aziende per le loro competenze/conoscenze tecniche quasi immediatamente fruibili, con un’Intelligenza Artificiale che si sta evolvendo in modo vertiginoso e che è destinata ad imporsi in modo sempre più “aggressivo”, li vedo più soggetti alla precarizzazione da qui a qualche anno.
E qui sta il grande paradosso. Da un lato, la scuola pare sempre più orientata ad erogare una modalità di apprendimento “prêt-à-travailler” al fine di soddisfare il crescente bisogno, da parte delle aziende, di cervelli freschi prontamente disponibili; dall’altro, questa impostazione a Macchina (come l’avrebbe definita il grande Stephen Covey) del rapporto tra scuola e lavoro andrà innanzitutto a danneggiare i diretti interessati, cioè i futuri lavoratori, ma in seconda istanza anche le stesse aziende accuseranno la mancanza di menti critiche ed introspettive, capaci di portare valore aggiunto, dinamicità e crescita alle stesse.
La fortuna del nostro paese è quella di avere, diversamente da altri paesi sviluppati, una fetta molto ampia del terzo troncone, grazie al quale si riuscirà a mitigare gli effetti nefasti di questo nuovo trend, anche se la stragrande maggioranza di coloro che ne fanno parte continuerà a scegliere il lavoro autonomo. A questo settore, quindi, l’arduo compito di fare da trait-d’union tra il primo e il secondo troncone, mantenendo equilibrio e vitalità nel cosiddetto sistema Italia.
E il primo troncone? Continui a seguire la sua strada, non entri nel diabolico tunnel mentale del “A che serve studiare latino, storia, geografia, filosofia…?” Ricordiamoci gli insegnamenti del grande Maestro Miyagi in “Karate kid”: “Metti la cera, togli la cera… non chiedere perché: fallo e basta!”
Non chiediamoci a cosa serva studiare materie apparentemente inutili: anche leggere il modo d’impiego di un dentifricio serve. Ogni singola unità d’informazione che incameriamo si collega a migliaia di altre unità. Quello che conta non è quante informazioni si hanno, ma fino a che punto si è capaci di legare tali informazioni con altre in modo da produrre un pensiero creativo, innovativo. E, purtroppo, ancora troppe aziende non l’hanno capito, preferendo la conformità all’originalità di pensiero.
La forza del ragionamento sta nel condurre la mente verso un’unica possibilità; quella del pensiero nel cercare e creare più alternative. Entrambe sono necessarie e sta nel singolo scegliere l’una o l’altra via… ma sulla base della propria indole e non di mere speculazioni utilitaristiche.
Che nel lungo termine, non pagano mai.