HO UN RICORDO STAMPATO IN MENTE.
Un articolo di Katia Bovani
Quello del giorno in cui ho conosciuto da vicino il concetto di “autorevolezza”.
Si è trattata di una lezione che la vita mi ha impartito con un misto di severità e bonarietà. E voglio condividerla con te, in questo articolo.
L’esame di abilitazione forense è una piromanzia: lo posso dire forte.
Per questa ragione, il buon esito delle prove scritte mi fec l’effetto di una festa cerebrale con luci psichedeliche e profumi vari.
Ma, nello stesso tempo, segnò l’inizio di otto mesi di chiusura ermetica in casa e compressione nel mio studio per la preparazione delle sei materie orali.
Diritto processuale civile, diritto del lavoro, diritto commerciale, diritto ecclesiastico, diritto internazionale privato e deontologia forense.
In gioco c’era tutto quello che avevo costruito: uno studio già aperto, cause pendenti, un pozzo e mezzo di responsabilità morali e patrimoniali verso i miei clienti.
È stato un momento della mia vita molto complesso in cui ero contesa tra il timore di far saltare il banco e il giudizio altrui se avessi fallito.
Il giorno del mio esame orale è stato un bellissimo 3 maggio. Una giornata quasi estiva che faceva apparire Firenze più bella e viva di sempre mentre io mi struggevo per l’ansia.
La frescura di Palazzo Buontalenti – dove allora si trovava la Corte di Appello, sede delle prove orali dell’esame di avvocato – e il suo odore di antico mi accolsero calmandomi un poco.
Ero il quinto candidato in elenco, ma, un po’ perché non sapevo cosa fare e un po’ per masochismo, volli assistere alla prova dei quattro colleghi che mi precedevano.
Il primo, supera a pieni voti. Pareva un juke box sulla spiaggia: 100 lire e via la canzone.
Il secondo, ce la fa, ma di strettissima misura: preparazione così così. Il terzo, in gamba, ma molto emozionato: la resa era stata inferiore alle reali capacità che si percepivano tutte dietro la sua voce incerta.
E mentre io friggevo dandomi della stupida per essermi voluta sottoporre allo stillicidio altrui, si accomoda la quarta candidata. Ricordo il nome: Ilaria.
Prima domanda: “ Le condizioni dell’azione civile”. Abbastanza semplice. La risposta è di quelle che o la va o la spacca.
D’istinto, la collega batte forte il tallone destro in terra dando l’impressione che trovarsi in difficoltà . Ma non scompone il busto e neppure le mani. Prende le mosse da una nozione più complicata ( la differenza tra interesse ad agire e legittimazione ad agire).
Mi guardo intorno, in direzione dei colleghi venuti per prendere nota delle domande ricorrenti. In verità, ci guardiamo tutti con fare allusivo come a dire “Ma dove va a parare questa?”.
Lei continua a parlare. Con voce ferma e decisa procede nell’argomento a latere di quello chiesto. E il bello è che lo tratta con competenza.
Da un punto di vista logico, fa “ il giro delle sette chiese”. Ma lo fa con scioltezza, senza indugi e guadagna la risposta corretta.
Stessa scena in diritto penale e canonico: anziché rispondere alla domanda con un incipit pertinente, prende le mosse da ciò che conosce con il piglio di chi la sa lunga e la sa bene.
Mi aspettavo che, da un momento all’altro, qualcuno tra i commissari le dicesse: “Venga al punto”.
Invece no. La lasciano parlare e, nonostante, non riuscisse a far goal subito, alla fine arriva a toccare il punto.
Prova conclusa, pochi minuti di camera di consiglio e l’annuncio “Complimenti signorina. Da questo momento lei è avvocato”.
Pausa di mezz’ora prima di esaminare me.
Cerco affannosamente la risposta alla domanda: “Ma come ha fatto? Sapeva tre cose in tutto e pareva un libro stampato”.
A poco a poco, mi rendo conto il mio cervello ha distillato una sola caratteristica della collega: la voce.
Calma, non in retto tono di chi ripete a pappagallo, ma modulata e continua, senza interruzioni: di solito, fa così chi conosce ciò di cui tratta.
Anzi, non ne tratta: ne parla.
No, di più: ne discorre. Come si fa con gli amici durante un aperitivo.
Ora, mi era chiaro: aveva parlato con competenza di ciò che sapeva.
In altre parole, anziché prestare il fianco alle incertezze, aveva mostrato di essere davvero autorevole nei suoi argomenti.
La sicurezza delle sue nozioni giuridiche non era finta: era autentica.
Ecco come aveva fatto.
Quel giorno è passato alla mia storia personale per aver conseguito – anche io – il titolo.
Se chiudo gli occhi, rivedo me ragazza con ancora dentro la felicità di quel momento.
Ma quel giorno ha segnato, per me, l’inizio dell’apprendimento di una lezione che tutta la vita successiva ha contribuito a impartirmi e che supera ogni emozione: non è necessario sapere tutto e saperlo a menadito.
Anzi, sapere tutto, ricordarlo perfettamente e non perdere neppure un colpo risulta artificiale.
Una cosa sola è davvero necessaria: scegliere un settore di conoscenza ( magari quello più affine alle nostre corde), studiarlo, approfondirlo e coltivarlo con cura e amore.
Con attenzione al dettaglio, con proprietà di linguaggio, con costanza.
Gli anni a venire mi hanno insegnato – non senza importanti colpi di testa al muro della mia ostinazione – che il percorso di selezione e affinamento dev’essere la stella polare: selezione delle fonti presso cui attingere per la formazione, affinamento delle conoscenze tramite l’approfondimento.
E due sono le alleate in questo percorso: la prudenza e l’onestà intellettuale.
La prudenza è lo scudo contro gli attacchi infidi e perfidi della hybris: più ci si addentra nella competenza e nei riscontri positivi che ne traiamo, più si acquista sicurezza.
Questo è un bene, certo. Ma diventa un male quando cediamo alla tentazione di superare il limite della temperanza.
L’onestà intellettuale consente di avere un occhio esterno a noi e mantenerlo vigile.
È lei che ci fa riconoscere i nostri limiti, le cadute, i momenti in cui siamo stati carenti in qualcosa o abbiamo esagerato. Ed è sempre lei a suggerirci di riconoscere i talenti negli altri e prenderli come esempio.
Quando mettiamo a tacere le voci della prudenza e dell’onestà intellettuale, nel migliore dei casi siamo a rischio tracotanza. Nel peggiore, sconfiniamo nell’autorità.
E l’autorità, con tutto il carico di pre-potenza che si porta appresso, è il nemico da evitare o abbattere. Non piacciono le persone che fanno sentire il peso della loro posizione culturale o delle competenze ( ché le due cose non sono uguali) per avere il primato sul resto del mondo. Non piacciono perché a nessuno piace subire e tutti rifuggono chi non si mette in discussione.
Al contrario, quando una persona si concentra sulla propria formazione lasciandosi guidare dal sussurro delle due alleate, raggiunge l’autorevolezza.
Si accorge che il percorso iniziato non giungerà mai al termine perché troppo vasto è il campo della conoscenza e troppo poco è il tempo a disposizione, perché per quanto forte sia la volontà e importanti siano le capacità, il TUTTO non è alla portata umana.
Ma proprio perché è capace di comprendere tutto questo, la persona autorevole diventa faro e fonte di ispirazione.
Sono passati tanti anni da quel 3 maggio. Sul piano professionale è stata una tappa fondamentale per me. Sul piano esistenziale ho commesso errori e senz’altro continuerò a commetterne, ma posso serenamente affermare che senza quella data e senza Ilaria dentro a quelle data – una collega che non ho mai più rivisto –, la mia vita avrebbe preso un’altra direzione.
Non avrei mai saputo cosa significa riconoscere e cercare ( anche solo cercare) le persone autorevoli che possono elevarmi.
Senza pretese né aspettative da loro, ma con la tensione a trarne ispirazione.
Che colora la vita come poche altre cose nel Creato sanno fare.