LA COMUNICAZIONE VEICOLATA DAL CINEMA E LA SOCIETÀ DI OGGI
Un articolo di Pasquale Di Matteo
La cinematografia ha sempre avuto il potere di plasmare le mode, influenzare le opinioni e trasmettere ideologie e modi di fare.
Negli ultimi decenni, il cinema ha introdotto e diffuso tendenze culturali e filosofie di vita, affascinando i giovani e modellando i loro valori; chi non ricorda la diffusione delle arti marziali a seguito del successo di Bruce Lee?
E negli anni Ottanta? Con vere e proprie icone delle arti marziali al cinema, si diffondevano anche stili di arti marziali cinesi fino ad allora sconosciuti, come il Wing Chun e l’Hung Gar.
Soprattutto le arti marziali giapponesi hanno sempre veicolato insegnamenti sociali importanti, fondamentali per la pratica, come per la vita: rispetto dell’avversario, giustizia, correttezza, onestà…
Oggi, invece, era in cui il cinema propone eroi marziali più immediati e meno filosofici, anche i desideri dei giovani sono cambiati.
Se negli anni ’70 e ’80 i giovani occidentali erano affascinati dalle arti marziali grazie alle iconiche figure di Bruce Lee, Jackie Chan, Jean-Claude Van Damme e Steven Seagal, oggi il panorama è profondamente cambiato. E non solo per colpa di una cinematografia più incentrata sullo spettacolo che sulla sostanza.
Con l’avvento delle piattaforme social, infatti, i giovani si avvicinano sempre più a video di combattimenti MMA (Mixed Martial Arts), che sembrano allontanarsi dai valori tradizionali di disciplina e rispetto perché il loro obiettivo è quello di vincere, di prevalere sull’altro.
Questo cambiamento riflette una trasformazione culturale che ha visto il Giappone, con la sua antica tradizione marziale, distanziarsi sempre di più dall’Occidente, perché lì le arti marziali tradizionali sono ancora la norma.
Negli anni ’70 e ’80, la cinematografia ha introdotto in Occidente le arti marziali attraverso film che ne esaltavano non solo le tecniche di combattimento, ma anche i valori profondamente radicati nella cultura orientale.
Bruce Lee, con il suo carisma e la sua incredibile abilità, non era solo un maestro di arti marziali, ma anche un filosofo che portava avanti principi come la disciplina, il rispetto per l’avversario e l’autocontrollo, tutte tematiche sviluppate anche in diversi suoi libri.
Questi film non erano solo azione, ma dietro ogni colpo c’era un significato, dietro ogni duello un insegnamento, anche quando i combattimenti potevano sembrare forzati e/o solo violenza gratuita.
I protagonisti erano eroi, non solo per le loro capacità fisiche, ma per la loro saggezza, la bontà d’animo e il loro codice morale.
Le arti marziali, rappresentate in questi film, non erano viste come mera violenza, ma come un percorso di crescita personale, dove la padronanza delle tecniche era inseparabile dall’evoluzione interiore, morale e filosofica.
Jackie Chan, con il suo stile unico che mescolava comicità e azione, e Jean-Claude Van Damme, con le sue spettacolari spaccate, continuarono a trasmettere questi valori agli spettatori.
I giovani che seguivano questi film erano attratti non solo dall’azione, ma anche dalla filosofia che le arti marziali portavano con sé, quindi l’arte del combattimento non era solo calci e pugni, ma anche mente e spirito.
Un tempo, dunque, i giovani imparavano che il miglior modo di comunicare la propria rabbia, il disappunto e l’offesa era il controllo, il non dare peso alle situazioni.
Calci e pugni erano strumenti da usare solo in caso di estrema necessità, quando non era possibile nessuna altra scelta.
Con il passare del tempo, però, la cinematografia ha iniziato a cambiare. La spettacolarizzazione delle scene di combattimento ha portato a una progressiva perdita di quel profondo legame tra tecnica marziale e filosofia di vita, situazione aggravata all’ennesima potenza dalle piattaforme video.
Oggi, con lo sdoganamento di video violenti, si è verificata una trasformazione radicale nella percezione dei giovani verso gli sport da combattimento, ma anche – e questo è il dramma sociale di oggi – della difesa personale.
Le MMA, pur essendo uno sport che richiede abilità tecniche notevoli, non sono impregnate di quei valori tradizionali che veicolavano le arti marziali e non perdono tempo con nozioni di filosofia.
La vittoria e la prestazione fisica diventano ciò che conta, spesso a scapito dei principi di rispetto, di disciplina e di autocontrollo, e il combattimento, – spesso anche la difesa da strada – sono presentati come un’esperienza cruda e viscerale, dove l’obiettivo principale è sconfiggere l’avversario.
Il valore morale del percorso personale, tanto caro alle arti marziali tradizionali, passa in secondo piano, così come la capacità di gestire in maniera matura le situazioni. E non a suon di pugni.
L’immediatezza dei video e la ricerca di adrenalina fanno sì che molti giovani siano attratti più dalla performance fisica che dal percorso di crescita interiore che, al contrario, richiede spirito di sacrificio, tempo e tanta pazienza, perciò le arti marziali, soprattutto quelle non sportivizzate, stanno perdendo capacità attrattiva.
Questo cambiamento riflette una più ampia evoluzione della società, dove l’apparenza e la spettacolarità tendono a sovrastare il contenuto e il significato.
In questo scenario, il Giappone appare sempre più lontano dai gusti e dalle tendenze occidentali, poiché, mentre l’Occidente si sposta verso un approccio più pragmatico e spettacolare agli sport da combattimento, il Giappone rimane ancorato ai suoi valori tradizionali.
Il karate, l’aikido e il judo continuano a essere insegnati non solo come tecniche di difesa personale, ma come veri e propri percorsi e stili di vita.
In Giappone, il dojo (il luogo dove si pratica) è uno spazio sacro, dove la pratica delle arti marziali è strettamente legata alla crescita personale e spirituale. Un luogo dove ogni allenamento è una lezione di disciplina e di vita, di rispetto per l’avversario e di autocontrollo.
Il combattimento, infatti, non è mai fine a sé, ma è un mezzo per migliorare come individui.
Questa distanza culturale si riflette – al tempo stesso nasce da lei – nella cinematografia giapponese, dove le arti marziali vengono ancora rappresentate con un rispetto quasi religioso, sottolineando come il combattimento sia un’estensione di una filosofia di vita, in netto contrasto con l’approccio più brutale e spettacolare delle produzioni occidentali.
Per i giapponesi, la vittoria senza onore non è una vittoria, mentre in Occidente l’importante è vincere, anche si gioca male e non si merita la vittoria.
Il cambiamento nella rappresentazione delle arti marziali e degli sport da combattimento nella cinematografia riflette una più ampia trasformazione dei valori culturali, perciò, se un tempo il cinema trasmetteva una visione filosofica e disciplinata del combattimento, oggi si tende a privilegiare l’aspetto spettacolare e fisico.
Ciò dimostra come la comunicazione sia vasta e tocchi aree amplissime, ma anche come una comunicazione non attenta allo sviluppo della società diventi promotrice di comportamenti che sviliscono la società stessa.
Ovviamente, non ho nulla contro le MMA né contro la loro pratica. Anzi, ho degli amici che praticano, tuttavia, il fatto che ormai le arti marziali tradizionali non siano più “pubblicizzate” dai film, ha interrotto la trasmissione dei valori che veicolavano.
Saper combattere è un po’ come saper comunicare. Il migliore sa quando è il caso in cui non dire né fare niente. Ma, senza valori e filosofia, si comunica solo con la rabbia e con i pugni.
Nella vita, come nel lavoro.