COME GESTIRE LA COMUNICAZIONE E IL BRANDING IN TEMPI DI GUERRA, LA SCELTA TRA ETICA E OPPORTUNISMO
Un articolo di Pasquale Di Matteo
Se pensate che nascondere la testa sotto la sabbia come struzzi beneducati possa salvare il vostro brand da una guerra mondiale, siete già morti. O, peggio, siete parte del problema.
Mentre i droni volano, i ragazzi continuano a morire in Ucraina e i politici giocano a Risiko, la comunicazione aziendale non può permettersi il lusso dell’ambiguità. Per la clientela e per chi fa parte dell’azienda.
Servono scelte nette. E, soprattutto, servono etica e coraggio.
LA GUERRA È UN AFFARE? SÌ, PER CHI VENDE ARMI. MA IL BRANDING PACIFISTA È L’UNICO CHE RESISTE ALLA STORIA
C’è chi si frega le mani calcolando profitti sulla ricostruzione dell’Ucraina o sugli armamenti. Bravo. Se il tuo unico scopo è arricchirti sulle macerie, continua pure. Ma se quelle macerie diventassero quelle di casa tua?
Se vuoi che il tuo marchio sopravviva alla prossima decade, tatuati sul cervello queste parole: le aziende che hanno costruito legami durevoli con il pubblico sono quelle che hanno scelto la vita, mai la morte.
Prendiamo il 1962. La crisi di Cuba insegnò al mondo che l’escalation militare è un gioco da idioti. Per fortuna, alla guida dell’America e dell’Unione Sovietica c’erano due uomini che si dimostrarono saggi.
Oggi, invece, con la Germania che autorizza l’uso di armi NATO in territorio russo, rischiamo grosso, solo che, anziché avere Kennedy e a Krusciov, ci ritroviamo con una massa di politici europei che giocano a Risiko.
Perciò i brand devono scegliere se essere complici silenziosi o diventare megafoni di pace.
IL DOPPIO PESO DELLA MORALE: GAZA E UCRAINA SONO LA STESSA TRAGEDIA, MA CON HASHTAG DIVERSI
Se ancora non vi è chiaro che degli aggrediti e degli innocenti non interessa niente a nessuno, provate a confrontare i titoli dei giornali su Gaza e Kiev. Civili uccisi? Bambini sotto le bombe? Indignazione? Sanzioni e armi a chi si difende?
Dipende dal colore della bandiera.
Ebbene, i brand che vogliono restare umani devono schierarsi con chi non ha voce, perché l’etica attiva empatia e suscita emozioni positive verso quel brand.
Un esempio?
Aziende come Ben & Jerry’s hanno costruito la loro reputazione su valori pacifisti, fin da quando si schierarono apertamente contro la guerra in Vietnam.
Oggi, chi ricorda i marchi che appoggiavano la guerra?
Ben & Jerry è stata gestita con responsabilità sociale, ponendo il profitto in subordine, nella logica della mission definita Caring Capitalism, che oggi chiamiamo “Responsabilità sociale” o “Sostenibilità” che si fondava su tre principi:
PRODUCT MISSION: distribuire e vendere gelati della migliore qualità possibile, prodotti con ingredienti naturali provenienti dalle fattorie del Vermont.
SOCIAL MISSION. Grande attenzione a: innovazione, sostenibilità e un occhio di riguardo per le comunità locali, sia nazionali sia internazionali, mettendo al primo posto le persone, dentro e fuori l’azienda.
ECONOMIC MISSION. Grande attenzione alle spese, con la massima tutela per gli azionisti, e dipendenti messi al centro grazie a politiche di Welfare e piani di carriera mirati.
Così, il latte veniva acquistato da allevamenti che non utilizzavano ormoni; sostenevano iniziative umanitarie in tutti gli USA. Da una comunità di senza tetto acquistavano i coni gelati, mentre le nocciole arrivavano da una organizzazione brasiliana associata a politiche attente alla salvaguardia dell’ambiente.
Inoltre, aprirono stabilimenti in zone depresse e quando capitava di dover chiudere gli impianti per manutenzione, i dipendenti venivano tenuti in organico e impiegati ad ammodernare le case dei meno abbienti.
COINVOLGI I DIPENDENTI, PRIMA CHE SCAPPINO DALLA FINESTRA
I vostri dipendenti hanno paura di finire al fronte? Paura di cosa potrà accadere alle loro case, ai figli, alle auto, ai soldi in banca? Bene. Significa che sono esseri umani. Ecco come trasformare il panico in energia.
FLESSIBILITÀ REALE, NON SOLO SULLA CARTA. Lavoro da casa? Sì, ma con sostegno psicologico concreto. Sessioni di meditazione, consulenze gratuite, gruppi di dialogo.
COMUNITÀ, NON SOLO TEAM. Create spazi sicuri dove condividere paure, non solo indicatori di prestazione. Un dipendente ascoltato è un dipendente leale. Ma se ascoltato veramente, non mostrando un sorriso da “ascolto attivo” studiato a tavolino.
PROGETTI DI PACE. Investite in iniziative che promuovano il dialogo e la pace. Soprattutto, iniziative contro la guerra. Anche iniziative simboliche. Una donazione a un’ONG realmente pacifista può valere più di uno spot Superbowl.
IL FUTURO APPARTIENE A CHI SI ALZA IN PIEDI, NON A CHI STRISCIA
Tra cinque, dieci o quindici anni, quando (speriamo anche prima) questa follia sarà un incubo passato, i brand ricordati saranno quelli che avranno scelto la coerenza. Essere pacifista non è soltanto una comunicazione intelligente, etica e di buonsenso, ma è anche un calcolo lungimirante. La Generazione Z premierà chi avrà mantenuto integrità.
E se pensate che sia troppo rischioso, ponetevi questa domanda: meglio perdere qualche cliente oggi o diventare il simbolo del cinismo domani?
Perché anche il vento della politica cambia. Prima o poi.
SIATE UN FARO NEL BUIO, NON FOGLIE TRASCINATE DAL VENTO
La comunicazione in tempo di guerra è più una prova di umanità che una sfida di marketing e, paradossalmente, proprio quando la politica fa di tutto per far parlare missili e bombe, i brand che sopravvivono sono quelli che mostrano coraggio e illuminano il buio, non quelli che alimentano il fuoco.
Le persone hanno bisogno di smartphone, di automobili, di strumenti musicali, di una pizza, di abiti, di stare insieme, di un abbraccio… non di pensare alla guerra.
Alimentiamo questo stile di vita e non quello di “essere pronti” veicolato da mesi dall’Europa. Il nostro “kit di sopravvivenza” deve essere quello delle braccia spalancate al futuro, quello della vita, dell’evoluzione, del rifiuto categorico di ogni forma di guerra.
Mohammed Ali sarebbe stato ricordato come un campione di pugilato anche se avesse accettato le politiche militari degli USA in Vietnam, ma è indubbiamente diventato una leggenda per aver sfidato apertamente e senza paura il governo più potente al mondo.
Il suo coraggio, la sua coerenza e i suoi comportamenti contrari alla guerra hanno fatto del suo brand un’icona mondiale che va al di là dello sport.
E quanto vale ancora oggi il brand Mohammed Ali rispetto ad altri campioni di boxe?
Siate luce e ispirazione e non complici silenziosi per paura o per tornaconto immediato.
Al limite, qualcuno vi accuserà di essere “troppo politici”, ma voi rispondete con una battuta da sociologo: “La neutralità è un privilegio solo per chi non ha gli strumenti cognitivi per intuire gli effetti dei missili e per i codardi”.
Come fare comunicazione orientata al branding di pace?
Beh, inserendo il termine e i colori della pace sul sito aziendale, nelle pagine social, sulla carta intestata, in ogni pubblicità, post, discussione, podcast o altro; scrivendo nel blog aziendale a favore della pace e, soprattutto, veicolando messaggi contrari alla guerra in ogni occasione perché le persone sentano il vostro brand come il vicino della porta accanto, come uno di loro. Uno di cui ci si può fidare perché pensa alla loro incolumità, al futuro dei loro figli.
Perché una comunicazione contraria alla guerra assocerà il vostro brand alla vita e alle cose belle.
L’unica comunicazione possibile in tempi di guerra è il rifiuto della guerra e mettere al centro la vita.
Associate il vostro brand alla pace, al rifiuto della guerra e alla vita. Quando questa follia guerrafondaia passerà, avrete un vantaggio enorme rispetto alla concorrenza che cercherà di restare a galla puntando sulla neutralità.
E poi, vuoi mettere la differenza di etica, spessore e dignità?