LA DISCIPLINA DEL SILENZIO: COMUNICARE CON I FIGLI, TRA DOVERE E RISPETTO
Un articolo di Pasquale Di Matteo
Siamo giunti alla fine della scuola. Un periodo carico di ansie, esami, risultati incerti, recuperi. Qualcuno rimandato. Un amico mi confida che suo figlio, un tempo brillante, ha smesso di studiare. Rischia seriamente due materie, altre sono appese al filo del sei.
“Cosa posso fare?” mi chiede, sfinito.
La mia risposta è stata netta: “Niente. Non devi fare niente.”
Non è una resa, ma una strategia comunicativa radicale, profondamente pedagogica, che affonda le radici nella sociologia dei ruoli e della responsabilità individuale. Un principio che ritroviamo, lucidamente argomentato, nel pensiero di un sociologo e psichiatra come Paolo Crepet.
Ovviamente, parlo di ragazzi che non ci mettono impegno, non di chi ha problemi e nemmeno di chi ha preso 8 anziché 10.
Per esempio, mio figlio ha ottimi voti in tutte le materie, (frequenta il Liceo musicale Stradivari) a parte Scienze e Matematica, che sono il suo punto debole. Eppure, quest’anno sono felicissimo perché nel secondo quadrimestre, ha raggiunto la media del 7 in entrambe. Molto più felice di quel 10 in Storia della Musica e dell’8 in entrambi gli strumenti che studia, perché ho visto quanto si è impegnato per capire meglio certe equazioni e altre strategie di chimica in materie che non sono nelle sue corde e che non gli piacciono.
Ma è proprio sull’impegno che dovremmo focalizzare il discorso.
IL PARADOSSO DELLA NON-AZIONE
L’errore comune, sociologicamente rilevante, è credere che la comunicazione genitoriale efficace stia solo nelle parole, nelle prediche, nelle minacce, nelle urla. O, all’opposto, nel lassismo accomodante.
Entrambi gli estremi falliscono. Perché ignorano la dimensione delle conseguenze.
Invece, basta sospendere i “privilegi” legati al non-dovere.
Niente paghetta.
Niente benzina per il motorino.
Niente pizza con gli amici.
Niente uscite domenicali, sabato sera con il fidanzato o le amiche.
Niente lezione di musica, sport, danza o altre passioni.
Niente accesso indiscriminato a telefoni, consolle o altri svaghi costosi.
Niente di niente.
Non serve alzare la voce. Non serve battere i pugni sul tavolo. Basta applicare, con calma e fermezza, la logica contrattuale della vita adulta: lavori, ricevi uno stipendio. Non lavori, niente stipendio.
È una comunicazione non verbale di straordinaria potenza educativa: “Se tu non adempi al tuo dovere primario (lo studio), io sospendo i miei ‘servizi’ accessori (i privilegi concessi = lo stipendio)”
LA SCUOLA COME PALESTRA DI VITA, MA SERVONO LE FAMIGLIE
Qui tocchiamo il nocciolo della questione. La scuola non è solo un luogo di apprendimento nozionistico, dove puntare al sei o al massimo dei voti, ma è la prima, fondamentale agenzia di socializzazione secondaria, cioè al di fuori della famiglia.
È dove i ragazzi sperimentano, in forma protetta ma reale, dinamiche che struttureranno la loro vita adulta.
L’insegnante non è un nemico. È la figura che rappresenta il “datore di lavoro”, il “capoufficio”, il “cliente” di domani. Prenderlo in giro, sminuirlo sistematicamente, ignorarne le richieste, non è una bravata innocua, come troppi genitori pensano, ma è un allenamento alla disfunzionalità sociale futura.
La scuola insegna a interagire con figure di autorità basata sul ruolo e sulla competenza che sono una lezione civica essenziale per maturare come individui completi e strutturati.
Il “diritto” allo svago, alla libertà, al consumo (paghetta, motorino, pizza, discoteca, uscite con gli amici) non è inalienabile, ma strettamente correlato all’adempimento del dovere primario di studiare.
E studiare è il lavoro del ragazzo. È il suo contributo al patto familiare e sociale. Pretendere il diritto senza adempiere al dovere è un modello comunicativo disastroso, che genera individui immaturi e pretestuosi, incapaci di assumersi responsabilità.
Andare a scuola, impegnarsi, è l’unico, vero “dovere civico” concreto che un minorenne ha verso la comunità, perciò sminuirne il valore, deriderne gli attori, come i professori, e permettere che venga vissuta con sufficienza, è un danno sociale che coinvolge tutti.
IL FALLIMENTO DELLE VECCHIE STRATEGIE
L’atteggiamento “molle”, quel lamentarsi un po’, ma poi concedere il motorino, la pizza, la serata al cinema “tanto per evitare storie” è una comunicazione contraddittoria, perché svilisce l’autorità genitoriale e veicola il messaggio devastante per cui “tanto, ottengo comunque ciò che voglio.”
Le parole sono vuote se non confermate dalle azioni, se non portano a conseguenze reali.
Essere molli è il miglior modo per insegnare l’irresponsabilità.
Parimenti, l’autoritarismo urlato e punitivo, privo della logica consequenziale, genera solo risentimento, voglia di sfida e odio nei confronti dell’insegnante, della materia, della scuola.
Il non agire è l’antitesi di entrambi, poiché è una logica fredda, impersonale nelle regole, ma profondamente rispettosa della capacità del ragazzo di comprendere le relazioni causa-effetto.
PERCHÉ FUNZIONA?
Togliere i privilegi non è una punizione, ma un potente acceleratore di maturazione, poiché costringe il ragazzo a confrontarsi con il fatto che il mondo esterno (l’università, il lavoro, la società) non funzionerà mai come la dinamica familiare disfunzionale che alcuni genitori, in buona fede, perpetuano.
Imparerà che l’impegno precede la ricompensa (Vai a ballare? Solo se hai fatto il tuo “lavoro”. Avrai uno stipendio? Solo se hai lavorato.)
Svilupperà la sua vita sulla responsabilità individuale, non sulla protezione parentale asfissiante. E non passerà il tempo a trovare colpevoli per un 4 rimediato nella verifica, come il più classico dei colpevoli: il professore che non ha spiegato, o altre sciocchezze. Al contrario, saprà tirarsi su le maniche e capire che, talvolta, di fronte alle avversità è necessario impegnarsi molto di più.
Perché ti capiterà di trovare un cliente più esigente – e io che lavoro con il Giappone, posso confermarlo – o il datore di lavoro dalle mille pretese.
Eviterà di uscire dalle superiori con un’illusoria bolla di privilegi, per poi schiantarsi contro la realtà universitaria o lavorativa che lo giudicherà, spietatamente, per ciò che sa davvero. E non ci saranno alibi o genitori pronti a fargli carezze sulla testa.
IL CORAGGIO DI COMUNICARE LE CONSEGUENZE
Essere genitori non è essere amici e nemmeno servitori. Significa insegnare a stare al mondo, insegnare con amore. E l’amore più vero, a volte, sa indossare i panni della fermezza e sa dire NO!
Applicare la “disciplina del silenzio”, quel “non fare” che porta alla sospensione dei privilegi, non è crudeltà, ma l’unico modo per comunicare in modo inequivocabile che la vita prevede delle regole e che il rispetto si guadagna adempiendo ai propri compiti.
Perché la libertà è sacrosanta e dovuta, ma se figlia della responsabilità.
Non fare niente di fronte alla mancanza di impegno e di serietà dei ragazzi è la lezione più potente, la comunicazione più chiara, il regalo più grande per il loro futuro da adulti. È tempo di avere il coraggio del silenzio attivo.
Se ci pensate, funziona come nei team, dove il vero leader sa responsabilizzare e dare gratifiche a chi si dimostra all’altezza.