COME LA COMUNICAZIONE HA SOSTITUITO PAROLE E MUSICA CON IMMAGINI E PROSSEMICA.
DAL PRIMO VERO FESTIVAL DELLA CANZONE ITALIANA DI VIAREGGIO, AL FESTIVAL DI SANREMO DI OGGI.
Un articolo di Pasquale di Matteo
Negli anni Cinquanta, le voci dei cantanti raggiungevano case, osterie, piazze, attraverso la radio. Oggi, quelle stesse voci sono lampi su schermi, corpi immortalati in fotografie per like e hashtag.
La comunicazione delle canzoni, un tempo cucita addosso a un Paese in cerca di unità, è diventata un mosaico di identità liquide, dove ciò che conta non è più il messaggio veicolato, ma chi lo trasmette.
Nilla Pizzi era una figura austera in abito da sera. Voce pulita, sguardo rivolto all’orchestra, la sua “Grazie dei fior” non era davvero sua e non parlava di lei, ma attraverso la sua voce.
Era un inno alla rinascita, un ponte tra le macerie e la speranza. Avrebbe potuto cantarla chiunque altra e sarebbe rimasta la stessa canzone.
Oggi, invece, un artista sul palco di Sanremo non canta un brano, in realtà, ma se stesso. Uno stile, un simbolo, ciò che rappresenta.
I gesti, i tatuaggi, gli abiti che indossa, le frasi ad effetto durante le interviste, prevaricano qualunque aspetto musicale, trasformando la canzone quasi in un accessorio, perché la comunicazione è passata dal raccontare storie a vendere persone, trasformando ogni dinamica in un brand, ogni emozione in una strategia di marketing.
IL PRIMO FESTIVAL DELLA CANZONE ITALIANA A VIAREGGIO
Nell’agosto 1948, mentre l’Italia annaspava tra le macerie del dopoguerra, la Capannina del Marco Polo a Viareggio diede il via al primo Festival della Canzone Italiana.
L’idea di un festival della canzone era stata avanzata da un sanremese, il ragioniere Amilcare Rambaldi, ma la sua idea non era stata approvata dalla giunta comunale. Tuttavia, era arrivata a Viareggio.
I brani vincitori delle prime edizioni, “Serenata al primo amore”, di Pino Moschini, (1948) e “Il topo di campagna”, di Narciso Parigi, (1949) furono i primi sussulti di un Paese che cercava una voce univoca per superare le tante divisioni e le lacerazioni dell’Italia post fascista.
Ma quella manifestazione, priva di sponsorizzazioni adeguate, nel 1950 non fu replicata.
Fu allora che la nuova giunta di Sanremo, con pragmatismo visionario, colse l’occasione.
DALLA RICOSTRUZIONE AL SIMBOLO
Le prime edizioni di Sanremo furono un rito collettivo fragile, intimo. Tre sere di gennaio, dal 29 al 31, da lunedì a mercoledì, pensate esclusivamente per gli ospiti del Casinò, non per le case degli italiani.
Non c’erano “divi”, ma solo quattro cantanti a interpretare tutti i brani in gara.
Nilla Pizzi, vincitrice nel 1951 con Grazie dei fior, divenne famosa grazie alla canzone ed era consuetudine riferirsi a lei come “quella che canta Grazie dei fior.”
Poi, nel 1953, il regolamento richiese due arrangiamenti per ogni brano, due voci per raccontare la stessa storia. L’orchestra di Cinico Angelini si affiancò a quella jazz di Armando Trovajoli e i cantanti smisero di essere strumenti, diventarono narratori e, come scrisse Jacopo Tomatis, «fu il momento in cui «il sorriso del cantante iniziò a contare più della musica».
Il vero spartiacque arrivò nel 1955, quando la RAI trasmise il Festival in televisione.
Improvvisamente, non bastava più cantare, ma era necessario essere.
Il volto di Gino Latilla, la grazia di Nilla Pizzi, i pettegolezzi sulle loro vite private divennero carburante per un nuovo culto.
“Sorrisi e Canzoni” lanciò il primo sondaggio sui “cantanti preferiti”. Non più i brani, dunque, ma i cantanti, perciò la canzone si fece secondaria, eclissata dalla personalità dell’interprete.
Poi arrivò il 1958, l’anno in cui nacque il cantautorato in Italia.
Un giovanotto del Meridione aveva scritto una canzone che era stata presentata a diversi interpreti illustri dell’epoca, tra cui il mitico Claudio Villa, ma tutti l’avevano scartata perché il brano era diverso dal solito, con una struttura innovativa che per l’epoca sembrava persino audace.
Fu così che Domenico Modugno fi spinto a cantare da sé la sua “Nel Blu Dipinto di Blu”, che sarebbe diventata famosa in tutto il mondo come “Volare”.
La sua esibizione, con le braccia aperte e una prossemica molto meno controllata di come si era abituati al tempo, sbriciolarono il mondo post bellico e proiettarono l’Italia nel mondo moderno.
Era l’alba della nostra epoca, in cui il gesto scenico, la pettinatura, l’abito, persino il silenzio tra una strofa e l’altra, parla più delle parole.
Da allora, anno dopo anno, i cantanti diventavano simboli e non solo voci; corpi da amare, criticare, desiderare, imitare.
Idolatrare.
DALLA CANZONE AL CORPO: UN CAMBIAMENTO SEMIOTICO
Negli anni ’50, canticchiare un brano sanremese significava abbracciare un’emozione, mentre oggi, canticchiare un brano di Sanremo è un atto di identificazione con l’artista. E quasi conta di più un tatuaggio, una frangia, una dichiarazione politica durante un’intervista.
La canzone è diventata pretesto e fa da sfondo al personaggio.
Se i primi festival veicolavano messaggi collettivi, quali coraggio, unità, rinascita, patriottismo, oggi trasmettono storie individuali.
L’abito di Mahmood, le lacrime di Blanco, i monologhi di Fedez… tutto concorre a costruire un’iconografia che trascende la musica.
Non a caso, quando si annuncia il cast del Festival di Sanremo, a malapena si citano i titoli dei brani, ma tutti vogliono dare la notizia dei cantanti partecipanti, poiché lo spettacolo si costruisce sui nomi importanti e non sulla canzone più bella.
Le stesse procedure di voto non contemplano giurie di addetti ai lavori, ma lasciano spazio al televoto, che inficia ogni obiettività, poiché dà spazio ai fan di votare per i propri beniamini.
Anche a chi non ha la più pallida idea di cosa sia il circolo delle quinte e a chi non saprebbe neppure posizionare una scala di Do maggiore sul pentagramma, nonostante sia senza alterazioni.
Un po’ come se per giudicare una prova scritta in un concorso per nominare un giudice si usasse il televoto, lasciando voce in capitolo anche a chi non conosce il Diritto.
Ma ciò avviene al Festival perché non conta il giudizio sul brano, ma solo sul simbolo, sull’icona rappresentata dal personaggio.
TRA MEMORA E METAMORFOSI
Viareggio e Sanremo rappresentano due capitoli di un’unica epopea: quella di un Paese che ha usato la musica prima per ritrovarsi, poi per imparare la lingua, infine per specchiarsi.
Se nel 1948 la canzone era un ponte tra le ferite del passato e la speranza del futuro, oggi è un megafono per personaggi in cerca di visibilità.
Spesso, in cerca di un senso da dare alla loro stessa vita.