Fai pace con chi sei

Un articolo di Alessandro Carli

 

Da diversi anni, ormai, ho intrapreso una battaglia personale contro certe modalità “a stampino” di approcciarsi al mondo, alla vita, a se stessi… seguendo mode, stereotipi e frasi fatte che, andandoli poi ad analizzare, restano in superficie e non aggiungono assolutamente niente alla nostra esistenza, se non qualche secondo in cui possiamo illuderci di essere più di quanto crediamo.

Intendiamoci:  siamo tutti più di quanto crediamo, ma sono i criteri con cui ci misuriamo ad essere fallaci, restituendoci una fotografia di noi del tutto falsata, creata da presupposti moralistici a cui negli anni abbiamo dato credito ed a cui sentiamo il dovere di aderire.

Nel bene e nel male.

L’errore più grande che commettiamo è quello di credere di essere creature “finite”, cioè un prodotto venuto fuori da una catena di montaggio cosmica su cui non si può ulteriormente intervenire.

Una frase che spesso sento dire è: “Eh, sono fatto così…!”

Un’affermazione che, a seconda dei casi, è profondamente manipolatoria o inutilmente autodenigratoria.

Nel primo caso, si tratta di un viscido ricatto morale che mette il destinatario di questa frase nella condizione di dover accettare senza riserve chi la pronuncia e verso il quale prova magari un sentimento anche profondo (essendo un consanguineo, un coniuge, ecc.), a prescindere dal suo comportamento/atteggiamento; nel secondo, si tratta di un vero e proprio suicidio morale in quanto si accetta di essere un prodotto difettato.

La cosa interessante e che queste due personalità, così diverse tra loro, formano una coppia perfetta: il primo gioca e il secondo lo prende sul serio! Cosa vuoi di più?

La notizia è che nessuno “è fatto così”, nessuno esce dalla fucina cosmica come prodotto finito: siamo tutti lavori in corso e siamo qui per completare quel lavoro, con le nostre forze e con l’aiuto degli altri, sia di coloro che hanno già fatto un certo percorso sia di chi, pur avendo appena iniziato a lavorare su di sé, è disposto a mettersi in gioco.

 

Il problema dell’incongruenza

Anche a causa di una tradizione religiosa più focalizzata sul peccato (da “peccare”, cioè non avere abbastanza di…, quindi qualcosa di passivo) che su ciò che si è/ha e che ha molto influenzato anche il modo di educare i nostri figli, non c’è da sorprendersi se facciamo fatica a dover ammettere di non essere all’altezza delle aspettative delle persone per noi più significative: genitori in primis, ma poi anche il nostro partner, i nostri figli… perfino il nostro datore di lavoro!

Voglio dire, dov’è la congruenza nel dire ai nostri figli: “Sei disubbidiente, sei pigro, non fai quasi niente e quel poco lo fai male, sei egoista, sei capriccioso, non studi/non t’impegni, rispondi male… però ti voglio bene.”

Cosa capisce un normodotato?

Il primo messaggio che gli arriva è di essere amato o… che è sbagliato?

E la stessa moneta con cui veniamo pagati, la facciamo pagare anche agli altri… un circolo vizioso dal quale dobbiamo per forza uscire e lo possiamo fare solo iniziando con noi stessi, cambiando il modo di pensare su di noi ed il nostro dialogo interno.

 

Convinzioni da ribaltare

Cominciamo con lo smantellare qualche convinzione “perversa”.

  1. Sono quello che sono: fallace, incapace ed egoista – Se vedi due bambini all’asilo che si azzuffano, salteresti alla conclusione che sono dei teppisti? Non solo non lo faresti (qualcuno magari anche sì, ahimé…), ma li giustificheresti, non è così? Perché? Perché sappiamo che i bambini non sono ancora in grado di discernere certe cose, come il bene e il male, e sappiamo di dover avere pazienza. Poi viene l’adolescenza, ma non sembra che le cose vadano meglio, anzi. E, quindi, viene l’età adulta e si vedono cose ancora peggiori… qualcosa non torna: non sembra essere l’età il discrimine, ma altro. Non possiamo cambiare la nostra natura e la nostra indole, che comunque non abbiamo scelto, e se non le abbiamo scelte, non possiamo esserne responsabili. Siamo, però, responsabili della scelta – o meno – di elevarci al di sopra di esse: il discrimine sta dunque nella scelta, in nient’altro. Quale scelta faremo, però, se continuiamo a coccolare una visione negativa di noi stessi, rifiutando di fare pace con chi siamo e darci così la possibilità di cambiare? Di questo siamo certamente responsabili.
  2. Io sono okay: è il mondo ad essere marcio – Sembra essere l’esatto opposto della convinzione precedente, ma in realtà, solo superficialmente. Si tratta di una specie di transfert dove si sposta su altro (o altri) ciò che in effetti proviamo per noi stessi: ci sentiamo marci (parola pesante per dire “non ok”), ma poiché questa idea ci fa star male, la spostiamo altrove… e con essa, il problema. Una persona che sta bene con se stessa, che accetta di sé anche ciò che non le piace, ma che sta facendo qualcosa in proposito, vede anche il mondo “là fuori” allo stesso modo: non nega il male, ma sa che appartiene alla realtà in cui ci troviamo ed è disposta a fare la sua parte per migliorarla. Chi si vede migliore del resto del mondo, invece, sarà prima di tutto più incline al vittimismo (è tua la colpa, “mondo”, non mia!) e con questo si rifiuterà di assumersi la responsabilità del proprio cambiamento.
  3. Non possiamo cambiare le cose… solo prendere il meglio che si può – Parole decisamente nichiliste, ma che hanno un grande seguito. La persona che ha formato questa visione del mondo tende ad essere cinica, arrogante e sostanzialmente ignava. Si sente di essere sbagliata e, quindi, con una bassa autostima che non le consente di usare al meglio il proprio potenziale. In realtà, sta parlando di sé: è LEI che ritiene di non poter essere diversa da ciò che è, ossia debole, ed è quindi da LEI che si può ricavare poco. Dunque, non si piace, avendo accettato l’idea di non essere all’altezza del compito che dovrebbe svolgere, sentendosi molto al di sotto degli standard che si è data a seguito dei messaggi che ha ricevuto dalla famiglia o da altri.

 

Conclusione

L’uomo ha iniziato la sua storia diverse migliaia di anni fa e da allora ha dovuto sempre confrontarsi con le sue debolezze, le sue fallacità, i suoi mali… con qualche sprazzo di forza, di grandezza e di genio.

Da allora abbiamo fatto salti da giganti, cadendo nei più profondi abissi e raggiungendo le più alte vette, ma senza mai fermarci: questo siamo e questo ognuno di noi sperimenta anche nella propria storia personale.

E così come non abbiamo niente da rinnegare della storia umana, non abbiamo niente da rinnegare della nostra storia individuale. Stiamo sbagliando ancora tanto, anche di brutto, ma non per questo siamo un fallimento, poiché alla fine, non siamo più quelli di 1000, 100 o perfino 10 di anni fa e negarlo è più un atto di arroganza che di umiltà.

Possiamo accelerare – e di molto – questo processo realizzando che siamo e possiamo molto di più di ciò che siamo stati ed abbiamo fatto finora se, anziché guardare quanto manca per arrivare al colmo del bicchiere, cominciamo a renderci conto di quanto, goccia dopo goccia, vi abbiamo già versato.

Questo significa, almeno per me, fare pace con chi siamo.

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