Io sono OK, tu sei OK”: la rivoluzione gentile della psicologia transazionale
Un articolo di Lucia Franchi
Cosa succede quando un intero sistema culturale si basa sull’idea che non siamo “abbastanza”? Che dobbiamo “aggiustarci”? Che gli altri sono nemici, concorrenti o giudici da cui difendersi?
Nel 1967, lo psichiatra americano Thomas Harris pubblica un libro destinato a cambiare il modo in cui le persone vedono se stesse, gli altri e le relazioni:
“I’m OK – You’re OK”, in italiano “Io sono OK, tu sei OK”.
Un messaggio semplice, una portata rivoluzionaria
Sembra un’affermazione banale.
In realtà, è un atto sovversivo per l’epoca: siamo nel pieno della Guerra Fredda, delle tensioni razziali, del boom economico ma anche delle nevrosi da performance.
La psicologia tradizionale si concentra ancora molto sul disagio, sul patologico, sulla “cura” dei sintomi.
Harris invece, attraverso la lente della Psicologia Transazionale di Eric Berne, sposta il focus sulla relazione, sulla comunicazione tra le persone, e sul modo in cui interiorizziamo ruoli e identità fin dall’infanzia.
I quattro stati dell’essere
Il libro ruota attorno a una griglia semplice e potentissima:
Tu sei OK | Tu non sei OK | |
Io sono OK | Relazione sana e cooperativa | Senso di superiorità |
Io non sono OK | Senso di inferiorità | Disperazione, vittimismo |
Questi quattro stati dell’essere si formano nei primi anni di vita, influenzati da genitori, educatori, ambiente sociale. Ma non sono fissi: possiamo evolverli, con consapevolezza.
La posizione “Io sono OK, tu sei OK” è la più matura e funzionale.
Ma non è una posizione naïf.
Non significa negare i conflitti o le differenze.
Significa riconoscere che, anche nella divergenza, tu vali e io valgo. Che possiamo incontrarci da pari.
L’impatto culturale (che oggi diamo per scontato)
All’epoca, questo approccio rompe uno schema dominante:
- La colpa e la vergogna come strumenti educativi.
- La superiorità dell’autorità (genitore, capo, terapeuta) sull’individuo.
- L’idea che per migliorarsi si debba partire dal “non andare bene”.
Harris offre un’alternativa: un modello di sviluppo personale e professionale basato sull’autonomia, la responsabilità e la fiducia nella possibilità di cambiare.
È un seme potente, che germoglia negli anni ’70 e ’80 in tutte le forme di comunicazione non violenta, leadership collaborativa, educazione positiva.
Molte delle pratiche che oggi consideriamo “normali” – coaching, feedback costruttivo, ascolto attivo – affondano le radici anche lì.
Un richiamo (urgente) al presente
Nel mio lavoro quotidiano di coach e formatrice, noto un ritorno, sottile ma concreto, a modelli aziendali tossici:
- relazioni basate sulla paura,
- aspettative irrealistiche,
- comunicazione passiva-aggressiva,
- manager che parlano di benessere ma agiscono sul controllo.
Per questo sento che “Io sono OK, tu sei OK” non è solo un ricordo degli anni ’70.
È un invito attuale e urgente: ritornare a relazioni sane, perché lavoriamo meglio se stiamo bene.
Perché la performance non può sostituire il senso. E la produttività non può annullare la dignità.
E forse, come formatori, coach o manager, dovremmo ricordarcelo più spesso:
non si cresce dalla vergogna. Si cresce dalla fiducia.