LA COMUNICAZIONE NON È SOLO MARKETING, MA L’ANIMA DI UN’AZIENDA
Un articolo di Pasquale Di Matteo
Se ti aspetti il solito articolo sul marketing e l’engagement, inutile che tu perda tempo a leggere una riga di più. Perché c’è un equivoco letale in questi anni: confondere la comunicazione con la pubblicità.
No, la comunicazione non è pubblicità di un’azienda, ma è il respiro tra sé e il mondo. È l’identità di un marchio.
Se trattieni troppo il fiato, svieni. Se respiri veleno, muori. Allo stesso modo, ogni messaggio, ogni silenzio, ogni reazione -o non-reazione- a un evento globale parla dell’azienda e comunica il suo posto nel mondo, producendo effetti.
Ignorare le proteste sociali, le guerre, i grandi cambiamenti di questi anni non significa “restiamo neutrali, perché se ci sbilanciamo rischiamo di perdere chi la pensa diversamente”. Non commentare una crisi umanitaria, sperare che “tanto passa”, sono strategie da struzzo.
E gli struzzi, si sa, finiscono arrosto.
IL FUTURO È UN LABIRINTO SENZA MAPPA, QUINDI PORTATI QUALCUNO CHE SAPPIA LEGGERE UNA MAPPA
Prevedere il futuro è impossibile, ma si può abitare il presente con gli occhi spalancati.
E qui entra in gioco la comunicazione. No, non parlo di algoritmi o di formule magiche, ma dell’arte di decifrare i segnali, le tensioni, le dichiarazioni, persino i silenzi.
Un like può essere opportunismo, un silenzio un’ammissione di colpa, un trend un grido di dolore.
Così come la dichiarazione di un politico o un annuncio possono voler dire tutto e il suo contrario.
Le aziende pensano spesso che fare comunicazione significhi avere un ufficio marketing, con un tizio dedicato ai social network aziendali. Uno di quegli “esperti di LinkedIn” che pensando di risolvere tutto con frasi infantili tipo “Linkedin è una piattaforma per discutere di lavoro, non di politica.”
Un po’ come se un medico dicesse: “la depressione non causa febbre, perciò perché è venuto da me?”
Perciò, tante aziende affidano la comunicazione a chi pubblica post simili a tanti altri che puoi leggere sulle bacheche dei tuoi competitor. Post che parlano solo di ciò che l’azienda fa e mai di che cosa pensi.
Ma le persone, oggi, se ne fregano sempre di più degli influencer che guidano auto sportive e seguono chi ha pensieri e punti di vista audaci, talvolta contrari a ciò che viene considerato “normale”.
Per un’azienda funziona allo stesso modo. Solo amplificato all’ennesima potenza.
IL SARCOMA DELL’IGNORANZA: QUANDO LA FILOSOFIA AZIENDALE È “NON SO E NON VOGLIO SAPERE”
C’è una specie in via di estinzione.
Sì, mi dispiace, ma sono proprio i manager che dichiarano fieri “Io la politica non la seguo, tanto non cambia nulla. E poi non ho tempo. Devo lavorare.”
Peccato che la politica, oggi, sia ovunque: nei contratti, negli algoritmi, nelle proteste dei dipendenti, nelle scelte dei consumatori.
Basta osservare la campagna pubblicitaria di Bud Light che, in seguito alla scelta di affidarsi a un’influencer transgender, ha perso ricavi per 395 milioni di dollari.
Al di là delle opinioni di ciascuno sul genere dell’influencer, è chiaro che l’azienda ha fatto una scelta politica, senza avere – come si evince – il reale polso della situazione del suo pubblico target.
Ma oggi, i pubblici sono molto più influenzati da Zelensky e Trump che da una tizia che veste abiti griffati su Instagram. E quegli imprenditori che non lo capiscono sono destinati a essere superati dai competitor che lo capiranno.
Ignorare ciò che accade nel mondo è come guidare bendati in autostrada, per poi lamentarsi delle conseguenze.
ADATTARSI E IMPARARE A PREVEDERE O SPARIRE. NON C’È TERZA OPZIONE
Il mondo sta cambiando a velocità folle e non aspetta nessuno.
Le crisi non bussano e i competitor non fanno beneficenza.
E chi segue ancora le regole paleolitiche che andavano bene fino al 2020 è destinato a sparire.
L’unica scelta che un imprenditore può fare oggi è trasformare l’azienda in un organismo sensibile, reattivo, umanizzato, attrezzando un ufficio Comunicazione che non sia marketing, ma ascolto del mondo e degli umori delle popolazioni.
Che tu venda pannolini o che produca patatine, non fa differenza, come quanto capitato alla Bud insegna.
Non si tratta più di affidarsi solo a chi abbia competenze di semiotica, prosodia, prossemica e di psicologia del colore, che sono il minimo sindacale di un buon professionista della comunicazione, e non servono più nemmeno le competenze da social media manager, che appartengono al mondo pre-Covid.
Oggi è indispensabile saper analizzare il mondo e affidarsi a chi ha dimostrato di fare analisi che il tempo ha certificato essere vere. E i social ci offrono la grande opportunità di verificare cosa scriveva chiunque, su qualunque tematica.
Prima di affidarci a un professionista di tal calibro, possiamo verificare cosa scriveva sui social in merito alla gestione pandemica e alla guerra in Ucraina, valutando se si tratta di una persona capace di fare previsioni che si verificano con i fatti, oppure uno dei tanti che credeva alle pale e alle sanzioni dirompenti.
Poiché, al di là della legittima opinione di ciascuno, un’azienda sta in piedi con i fatti e in base a ciò che accade nel mondo, non con le ideologie, i buoni propositi o altre belle parole.
Perché, per esempio, se punti sull’elettrico e la gente lo rinnega, non ci sono leggi e norme che tengano: chiudi interi stabilimenti.
Se non riesci a comprendere che la pace vince su ogni spinta guerrafondaia, perdi l’occasione di far crescere l’immagine del tuo brand.
Perché il mondo, storia alla mano, appartiene a chi ha osato guardarlo negli occhi. Chi si è nascosto, chi ha preferito il silenzio per non esporsi, magari ha vissuto qualche anno in più, ma è sempre sparito da tutti i libri, finendo nell’oblio.