LE ATTIVITA’ A TERRA
Un articolo di Roberto Lambruschi
La partecipazione alla vita di scuderia prevede la messa in atto di molteplici attività comunemente denominate “attività a terra”. Ne possono far parte ad esempio la pulizia dei cavalli, la preparazione del loro cibo, la manutenzione dei loro finimenti o la pulizia degli ambienti.
La tesi di fondo di questo scritto è quella di ribadire la necessità che queste attività non siano considerate elementi accessori, ma vere e proprie attività educative, parti integranti della proposta rieducativa che si vuole mettere in atto con l’aiuto del cavallo.
Una caratteristica importante dell’educazione è infatti quella di trasformare elementi dati per scontati o considerati comunemente di poco valore, in veri e propri strumenti educativi.
L’educazione si potrebbe allora rappresentare come quel “cerchio magico” all’interno del quale ogni cosa, anche la più semplice, può diventare educativa, sempre a patto che ci sia un’intenzionalità alle spalle che spinga perché questa divenga tale. In questo senso i gesti di cura messi in atto attraverso le attività a terra, seppur apparentemente semplici, se inseriti in una cornice di senso, hanno quindi la capacità di trovare significati nuovi rispetto a quelli già conosciuti.
Durante le attività a terra il cavallo, il suo ambiente e gli oggetti appartenenti al suo mondo vengono ad assumere la funzione di destinatari di particolari cure e attenzioni da parte degli utenti. Il fatto che persone disabili attraverso queste attività imparino a prendersi cura di qualcosa o qualcuno che è altro da sé non è da considerarsi come un dato trascurabile. Le persone con disabilità, infatti, tendono spesso a fare un’esperienza della cura come soltanto “subita” e mai “agita”.
Le attività a terra offrono al contrario alla persona disabile l’opportunità di decentrarsi e di sentire che altri possono dipendere dalle proprie cure, offrendo quindi l’opportunità di esperienza di padronanza di sé, di scoperta di potenzialità e di responsabilizzazione attraverso la messa in atto di comportamenti di cura eterodiretti.
Le attività di cura del cavallo dovrebbero inoltre essere articolate in modo da garantire una diversificazione dell’esperienza, permettendo così all’utente una messa alla prova e una sperimentazione di sé e delle proprie capacità, cosa talvolta negata all’interno di ambienti familiari e di vita di molte persone disabili, nei quali un’iperprotettività eccessiva lascia talvolta ridotti o assenti spazi di autonomia e di sperimentazione di sé.
Questa graduale messa alla prova di sé e scoperta delle proprie potenzialità passa anche attraverso la capacità di imparare gradualmente ad usare correttamente alcuni strumenti quali la striglia, la brusca, il nettapiedi, il pettine o la spazzola.
Un efficace utilizzo di questi strumenti richiede conoscenza, abilità, coordinazione, forza, equilibrio, precisione, ma anche un trasporto affettivo verso il cavallo e un valido senso di sé per superare paure e sensi di incapacità. Importante a questo proposito risulta la scelta da parte dell’educatore degli strumenti da utilizzare e delle attività da proporre.
Questi deve infatti considerare la disabilità fisica e\o intellettiva degli utenti per cercare di far emergere nel miglior modo possibile le capacità residue e per evitare di proporre attività che causerebbero l’insorgenza di frustrazioni inutili e non superabili dalla condizione di partenza.
Al contrario invece esperienze pensate, ben strutturate e “su misura”, hanno come conseguenza l’accrescimento della consapevolezza di essere in grado di assolvere un compito, con conseguente soddisfazione e autovalorizzazione della persona disabile.
Risulta infatti essenziale per il raggiungimento di qualsiasi scopo pensare esperienze affrontabili con gli strumenti di cui il soggetto è a disposizione, esprimibili attraverso un linguaggio comprensibile e che non prescindano dalla condizione esistenziale del soggetto ma che anzi usino questa come punto di partenza.
Solo partendo da questo presupposto è possibile offrire al soggetto l’opportunità di lavorare su di sé, ed in particolar modo ad esempio sull’incremento della propria capacità di espressività, sul rafforzamento del legame empatico con il cavallo, sul miglioramento della propria mobilità corporea e sull’acquisizione o l’incremento di “abilità integranti”.
Per “abilità integranti” si vuole qui intendere l’acquisizione o il perfezionamento di abilità utili nella vita quotidiana (come ad esempio il saper utilizzare un coltello), ma anche, allargando lo sguardo, l’acquisizione di strumenti (come la capacità di collaborazione e di comunicazione) necessari per una vita sociale vissuta in modo attivo e da protagonista.
Ogni proposta educativa ha infatti a che fare con la possibilità di determinare cambiamenti, di dar luogo ad apprendimenti che, se realmente tali, non possono essere incisivi solo in un determinato ambito, ma che coinvolgono l’intera esistenza della persona.
A questo proposito di grande rilevanza risultano essere anche le modalità di esecuzione di queste attività di cura, ovvero il fatto che queste attività possano essere svolte in gruppo. All’interno del gruppo per il soggetto disabile è infatti possibile sperimentare come la cooperazione abbia la capacità di incrementare il successo individuale, rendendo possibile con l’aiuto degli altri ciò che da soli non si può fare.
All’interno del gruppo è possibile inoltre sperimentare le capacità acquisite, verificandone l’efficacia attraverso il confronto con gli altri. In gruppo viene spesso richiesto dall’educatore di proporre iniziative e di ascoltare quelle degli altri, mentre le regole di comportamento già acquisite (non gridare, rispettare le precedenze, chiedere permesso) acquistano un valore ancora maggiore. L’esperienza del gruppo, in definitiva, offre l’opportunità al soggetto disabile di acquisire competenze diverse, che possono incrementare le capacità sociali e relazionali di partenza.
Importanti risultano poi i luoghi nei quali le attività vengono svolte. La scelta dei luoghi da parte dell’educatore deve avvenire in base ad alcune necessità (come ad esempio il contenimento, la vicinanza\lontananza dai genitori o la presenza\assenza di rumori) o ad altri obiettivi specifici.
E’ importante quindi per l’operatore conoscere i luoghi e gli effetti del loro utilizzo, così che la scelta tra questi non sia casuale o dettata dall’abitudine ma sia consapevolmente presa a seconda dell’obiettivo che ci si è posti.
Il fatto poi che queste attività abbiano la caratteristica di essere svolte all’aria aperta, in un ambiente naturale come può essere quello del maneggio, contribuisce a promuovere il recupero dei valori della natura e della relazione uomo-animale.
Questi valori che al giorno d’oggi lentamente vanno perdendosi a causa degli scarsi i tempi di contatto che abbiamo con la natura, devono rimanere sempre al centro di una particolare attenzione.
Essenziale è infine definire il ruolo giocato dall’operatore nell’accompagnare l’utente nello svolgimento delle attività a terra. Questi deve aiutare l’utente a vincere le proprie riluttanze, attutendo le ansie e rinforzando i successi.
L’operatore in ultima analisi acquista valore in questo ambito dal punto di vista professionale quanto più riesce ad essere un mediatore, un collegamento, ad esempio tra l’esperienza e la possibilità di apprendere da questa, tra il mondo del cavallo e quello della persona disabile.
Spesso, presi dall’ansia di trasferire nel soggetto ciò di cui non dispone, per colmare le gravi differenze tra ciò che ha raggiunto e ciò che avrebbe dovuto raggiungere in relazione alla sua età anagrafica, siamo portati a riempire, a pretendere che l’altro ci segua in un percorso da noi prestabilito.
Offrire lo spazio per la crescita vuol dire invece non tanto un trasferimento di competenze lungo un percorso di traguardi prefissati quanto invece rendere la possibilità all’altro di sperimentarsi in uno spazio facilitato e definito, occupato dall’operatore non come protagonista ma come attento mediatore.
Partire da questo assunto può aiutare l’educatore a non utilizzare dei “mezzi impropri”, ovvero quei mezzi che sostanzialmente riducono l’handicap senza alcuna collaborazione con chi lo vive in prima persona.
Resta invece fuori dubbio il fatto che chi ha un deficit vive la situazione di handicap come protagonista, ed è quindi necessario intendere la riduzione di handicap come un percorso da compiere insieme e non come un’imposizione.
In quest’ottica risulta essenziale ricordare che nel nostro lavoro…
“il fattore determinante non è il raggiungimento forzato di traguardi fisici, ma il controllo che la persona con disabilità riesce a raggiungere nella vita di ogni giorno. Il grado di disabilità non determina infatti il grado di indipendenza che una persona raggiunge.” (S. Brisenden)