“RIFLESSIONI A CUORE APERTO SUL MESSAGGIO DI UNO SCRITTO DI REINER MARIA RILKE
PER UNA SCUOLA UMANA CENTRATA SULL’ALUNNO”
Un articolo di Giovanni Cardinale
Diversi anni fa mi è capitato di acquistare, presso un piccolo negozio di antiquariato librario a Friburgo in Germania, un libriccino con alcuni scritti poco conosciuti di Reiner Maria Rilke, si trattava di un’edizione a tiratura molto limitata. Tra gli scritti che vi trovai ce n’era uno che attrasse particolarmente la mia attenzione, si trattava di una serie di considerazioni che Rilke faceva sulla scuola e sui metodi educativi dei suoi tempi. Lo trovai illuminante e molto vicino al mio modo di vedere e sentire la scuola. Questa fu la ragione principale per cui decisi di tradurlo in italiano.
Al seguente link trovate il testo originale, poco conosciuto anche in Germania, con la mia traduzione italiana a fronte: https://www.linkedin.com/posts/cardinale_sullapprendere-e-linsegnare-il-crescere-activity-7024053554625589248-xoRz?utm_source=share&utm_medium=member_desktop
Penso che il messaggio che Rilke ci voglia trasmettere in questo scritto sia estremamente palese e purtroppo ancor oggi di incalzante attualità. Bisogna necessariamente trasformare la scuola, perché la scuola seguendo programmi sta sempre uno o più passi indietro rispetto al Presente.
I programmi scolastici dovrebbero essere proiettati nel futuro e non strutturati sul passato e sulla tradizione. La storia, la letteratura, la fisica e la matematica possono essere tutte belle e buone cose, ma non dovrebbero essere propinate, per citare Rilke, come “pappa”.
L’imbuto di Norimberga non funziona più sulle teste delle nuove generazioni. I messaggi essenziali che la scuola dovrebbe mediare ai nuovi alunni, per essere recepiti, dovrebbero essere concisi, senza troppi fronzoli e diretti al dunque. Le nuove generazioni sono digitalizzate nel senso più letterale del termine. I bambini di pochi mesi non hanno problemi a capire intuitivamente, ancor prima di imparare a parlare, come funzioni un touchscreen di uno smartphone, sono affascinati più dalla tecnologia che dai mille giocattoli di plastica che li circondano.
Accanto ai programmi ministeriali che andrebbero regolarmente aggiornati, si dovrebbe creare un nuovo network scolastico altamente sicuro e veloce, sviluppato sul modello dei network che i giovani usano quotidianamente e, proprio su questa piattaforma dovrebbero svolgersi tutti i test scolastici. I quaderni e le penne dovrebbero venire affiancati dai palmari e ottenere lo status paritetico.
L’intelligenza intuitiva, che è una caratteristica del cervello presente in maniera diversa in ognuno di noi e che nei neonati è anche la prima a manifestarsi, non viene presa affatto in considerazione dalla scuola tradizionale.
L’intuizione, pur essendo sempre il frutto della nostra elaborazione mentale, non è razionale. Questo forse è anche il problema di fondo per cui la scuola rigetti l’approccio intuitivo e il pensiero laterale, che invece potrebbe essere di fondamentale importanza per aiutare a imparare a gestirne e comprenderne le potenzialità a chi ne è dotato e costituire una nuova risorsa per tutti gli altri.
Penso che, adottando una strategia di questo tipo, creando un network scolastico condiviso e protetto, molti bambini e bambine, ragazze e ragazzi dislessici o con altri “disturbi” dell’apprendimento, vivrebbero l’esperienza scolastica in maniera molto più appagante e la stigmatizzazione nei loro confronti col tempo sparirebbe anche dalle teste degli insegnanti.
Quello che scrivo lo dico per esperienza personale, perché so, che da dislessico, convivere e adattarsi alla “normalità” della scuola non è facile e richiede uno sforzo smisurato che i “normodotati” mai e poi mai saranno in grado di comprendere.
Quando interagiamo con una macchina i filtri affettivi si abbassano e il nostro rendimento è maggiore. Soprattutto i bambini con un cervello che lavora con un sistema operativo diverso rispetto a quello della maggioranza degli altri bambini, trovano difficoltà maggiori ad usare software sviluppati per il sistema dei “normodotati”. L’hardware e il sistema operativo non si può cambiare, ma i programmi, con un po’ di buonsenso e buona volontà possono sicuramente essere adattati per funzionare anche su altri tipi di cervelli.
L’EMPATIA è quello che manca completamente alla scuola, se ne parla in continuazione, ma nessuno sa come funzioni e a cosa realmente serva, quello che importa è solo seguire il programma.
Dove e a che punto si trovi, in un determinato momento, la maggior parte del gruppo della classe, non importa quasi a nessun insegnante, basta soltanto che Carlotta e Ferruccio abbiano capito tutto e abbiano consegnato, come al solito, un test impeccabile, a questo punto il resto della classe non conta, la “coscienza” dell’insegnante è pulita, ha fatto il suo “dovere” di insegnante: VALUTARE il sapere degli alunni in una scala apparentemente neutra fatta di numeri o lettere.
L’EMPATIA è sicuramente la parola chiave 🔑 su cui si dovrebbero basare tutti i rapporti all’interno della scuola, tra insegnanti e alunni, tra compagni di classe, ma anche e soprattutto tra colleghi, perché chi educa dovrebbe essere il primo a dare il buon esempio.
Perfino l’industria pesante sta abbandonando il sistema fordista della catena di montaggio, perché ritenuto obsoleto e alienante, ma a me sembra che la struttura della nostra scuola ricalchi pienamente il modello della fabbrica con catena di montaggio. Se guardo l’orario scolastico di mio figlio mi metto le mani ai capelli.
Non vorrei tornare mai indietro tra i banchi di scuola, soprattutto come alunno. Penso che la tanto proclamata interdisciplinarietà della scuola, non esista e non sia mai esistita perlomeno in Italia dove mi sono formato e nei due sistemi scolastici in cui ho lavorato (Germania e Slovenia).
Non si fa altro che aggiungere ogni tanto un po’ di altra “pappa”, una nuova materia, un nuovo atomo nell’universo del nozionismo. Le materie non comunicano tra loro, sono semplici atomi, che, nei cervelli degli alunni, rimangono distinti e separati.
Il sistema fordista non può più funzionare nemmeno nella scuola, che dovrebbe abbandonare il modello della fabbrica del sapere con catena di montaggio, per abbracciarne uno nuovo ma ispirato a grandi pensatori del passato come Rousseau e al nostro Rilke.
Questa scuola, adesso parlo da insegnate, dovrebbe essere un po’ come un “Orto Botanico”, un luogo protetto dove far crescere al meglio le piccole piantine, diverse per natura e origine e, tutte uniche nel loro genere, che ci vengono affidate con fiducia.
Se non teniamo in considerazione le esigenze e i sentimenti dei nostri giovani allievi, che razza di persone siamo. Certamente non degli “educatori” come invece spesso ci auto definiamo!
La metafora dell’“Orto Botanico” potrebbe sembrare bizzarra, ma è senza dubbio un’immagine, molto appropriata che rimanda direttamente al pensiero di Rilke, ma anche alla nostra società attuale sempre più eterogenea e multietnica.
Einstein, ricalcando probabilmente la maieutica socratica, ha affermato queste testuali parole: “La maggior parte degli insegnanti perde tempo a fare domande che mirano a scoprire ciò che l’alunno non sa, mentre la vera arte del fare domande mira a scoprire ciò che l’alunno sa e che è capace di sapere.”
Il punto sono proprio le capacità e l’intelligenza del singolo che vengono valutate dalla scuola secondo due al massimo tre delle 9,10 intelligenze che Gardner ha individuato e divulgato nella sua Teoria delle intelligenze multiple.
La scuola rincorrendo i programmi e strutturandosi gerarchicamente, in materie di prima, seconda e terza categoria, perde credibilità e un potenziale enorme di giovani menti con attitudini semplicemente diverse da quelle che la scuola invece ostinatamente sopravvaluta e persegue.

Essendomi formato in Italia e avendo lavorato, negli ultimi trent’anni all’interno di due diversi sistemi scolastici, in Germania e in Slovenia, credo che possa permettermi questo sfogo.
Ho conosciuto in tutti questi anni eccellenti insegnanti, che mettevano l’alunno sempre al primo posto, al centro, come sarebbe normale fare, ma purtroppo, dovunque mi sono trovato a lavorare, la gran maggioranza dei colleghi vedeva la classe come un gruppo di individui, nel quale, due o al massimo tre si distinguevano e su quei pochi decidevano di puntare e lavorare, lasciando il resto degli alunni a brucare a zonzo come un gregge nel pascolo del nozionismo.
Quei pochi eletti non saranno nella vita sicuramente degli Einstein, solo perché prescelti a scuola dai loro insegnati, ma semplicemente per le loro innate attitudini personali. Viceversa, è molto probabile, che nel gregge, lasciato a pascolare a zonzo, c’era qualcuno, che, se preso per mano e incoraggiato avrebbe avuto un’opportunità di crescita maggiore per raggiungere traguardi più alti nella vita.
Quello che manca alla scuola è la volontà di cambiamento, ma purtroppo anche la capacità di adattamento. La scuola è una struttura statica. La maggior parte degli alunni delle generazioni passate e presenti, a parte quel numero percentualmente insignificante degli “alunni modello”, non hanno trovato nella scuola un luogo sicuro dove sentirsi protetti, ma piuttosto, se non rientravano nel canone dell’”alunno modello” non è stato mai offerto loro un briciolo di considerazione e rispetto.
Se una persona decide di dedicare la propria esistenza all’insegnamento dovrebbe essere consapevole dell’importanza del ruolo che ricopre nella società. L’insegnamento non è soltanto una professione, ma in prima istanza una vocazione.
È anche vero che l’autostima, nel nostro mondo materialista gioca sicuramente un ruolo rilevante. È vero che i sistemi scolastici che funzionano meglio sono quelli in cui gli insegnati vengono pagati decorosamente e in relazione al compito fondamentale che svolgono nella società. Ma questo, che è un dato di fatto, non dovrebbe comunque rappresentare un movente.

Un medico quando presta il giuramento di Ippocrate prima di incominciare ad esercitare la sua professione, giura solennemente di curare tutti i suoi pazienti senza nessuna differenza né di età, sesso, condizione sociale, etnia, credo… e se non lo dovesse mettere in pratica, teoricamente dovrebbe essere radiato dall’ordine. Lo stesso dovrebbe accadere nella scuola.
Gli insegnati a tutti i livelli, da quelli della scuola dell’infanzia ai docenti universitari, all’inizio della loro carriera, dovrebbero prestare giuramento come i medici e impegnarsi ad aiutare tutti i loro allievi indistintamente a realizzare nella scuola le proprie attitudini nel miglior modo possibile. Se non dovessero riuscire nel loro intento dovrebbero avere il buon senso di cambiare professione e passare il testimone.
Se siete stati così pazienti da leggere fino in fondo, allora posso aggiungere che sono pienamente consapevole di tutto quello che ho scritto. So di essere stato forse un po’ troppo irriverente nei confronti della scuola e di aver prospettato soluzioni a dir poco utopiche, ma questo è solo il mio punto di vista, il punto di vista di un insegnante dislessico, che per più di un ventennio ha lavorato in incognito nella scuola, dalle elementari all’università, senza che mai nessuno se ne accorgesse. Spero comunque che questo mio sfogo serva da stimolo di riflessioni almeno per qualcuno.